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22 novembre 2024, Aggiornato alle 15,09
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Cultura

Un tuffo a Procida: l'isola riscoperta nel profondo blu

Tobia Costagliola, veterano delle immersioni in apnea, racconta le sue avventure marine nei luoghi natii

(Ph: Ventodimareprocida.it)

di Tobia Costagliola - DL Notizie

Non si può parlare o scrivere di Procida, delle sue coste, del suo territorio, della sua gente e della sua storia, senza prima soffermarsi sul suo mare, da cui come vedremo, più avanti, è sorta nella notte dei tempi. Scrivere e parlare del mare di Procida è, per me che vi sono nato, un dovere, una necessità, forse narcisistica, di far conoscere le mie sensazioni personali derivanti dal mio intimo contatto con questo elemento. 

Intimo contatto che, attraverso sempre più lunghe immersioni, al limite di ogni resistenza, ha prodotto, fin dall'infanzia, sensazioni straordinarie. Immergermi nel mare di Procida e penetrare in quegli anfratti semioscuri e solo sporadicamente illuminati da un debole raggio di luce proveniente dalla superficie, è stato sempre per me come un ritorno alle origini della mia esistenza, così come un bambino, appena nato che cerca di reimmergersi nel liquido amniotico materno. 

E mentre mi muovevo lentamente per non farmi spingere in superficie, quel silenzio "parlante", quella luce soffusa dai riflessi indescrivibili, mi invogliava ad indugiare, restare sempre di più, fino a perdermi in quello spazio infinito: molto spesso mi sono compiaciuto a pensare come sarebbe bello un giorno, alla fine della mia vita, perdermi negli abissi e non tornare più in superfice. Mi prenderò la libertà di parlare ancora di queste sensazioni nelle prossime pagine.

Purtroppo, faccio parte della folta schiera di coloro che vivono lontano da questa splendida isola dopo essersene allontanati in gioventù per seguire "le vie del mare" che, spesso, sono di "non ritorno" o di "fugaci passaggi" dopo che, approdando in altri lidi, vi hanno messo nuove radici. Nei miei passaggi per Procida, soprattutto durante le vacanze estive, il mio più grande divertimento era tuffarmi con maschera, pinne, borsa di rete e coltello da sub a cui aggiungevo, dopo il primo tuffo, un robusto sasso. 

La mia permanenza in mare consisteva nel girovagare sott'acqua, in apnea, fino a 4/5 ore per volta. Naturalmente ero sempre solo e senza barca e nuotavo lentamente per raggiungere tutti i punti della costa di Procida o di Vivara da me prescelti a seconda delle condizioni meteo e facendo ben attenzione a tenermi o, almeno, ad emergere sempre sotto costa. Ciò mi provocava grossi problemi con moglie e figlie che, giustamente, non hanno mai approvato questa mia "pericolosa" abitudine. Non mi stancavo mai di quelle irripetibili esplorazioni sottomarine che mi estasiavano sempre ed instancabilmente.

Salivo e scendevo come un matto e, oltre al godimento del silenzioso e variopinto scenario, in tutto relax, stanavo dalle loro tane piccoli e grandi polpi che "raccoglievo", soltanto con le mie mani, per riporle nella mia borsa di rete. Altra mia passione erano le innumerevoli "sommozzate" necessarie per staccare le ostriche dalla roccia. Non si trattava di ostriche normali, piatte, come siamo abituati a vederle oggi ma si trattava dello "Spondylus spondylus", una meraviglia del creato che era rintracciabile a oltre 15 metri di profondità e non era mai chiaramente riconoscibile. 

Si presentava sulle pareti di roccia a picco come una grossa pietra ricoperta di vegetazione, mitili e altro campionario di flora e fauna marina. L'adocchiavo dall'alto e facevo la prima puntata. Arrivato vicino, prima ancora che toccassi la "pietra", si notava chiaramente che questa faceva uno scatto. Era il segnale che era "lei". Lo scatto era causato dalla valva superiore che si chiudeva dando all'ostrica il massimo della mimetizzazione e protezione. 

Fatta questa prima ricognizione, se avevo ancora fiato, cominciavo ad usare il coltellaccio come uno scalpello, non per aprire la valva, ma per staccare l'intera ostrica dalla roccia in cui la seconda valva era incastrata. Una "sommozzata" non bastava mai; lasciavo il coltello come segnale per poter individuare il sito nel tuffo seguente, e così continuavo fino a quando, battendo sul coltello con un sasso precedentemente selezionato, la "cosa informe" non si staccava dalla roccia. 

Mentre risalivo, lentamente, non potevo fare a meno di cominciare a pulirla per poter ammirare l'ostrica in tutta la sua bellezza. La forma finale si delineava man mano che rimuovevo il materiale mimetizzante: immaginate un grosso mango, a volte molto tondeggiante, con decine di aculei calcarei che lo proteggevano. Il numero delle "sommozzate" dipendeva dalla grandezza della "pietra", dalla natura della roccia e dalla profondità; dovevo conservare il fiato per risalire. 

Nei bei tempi sono riuscito a "lavorare" anche tra 20 e 25 metri. Non voglio fare lo spaccone ma la profondità è stata misurata da qualche mio amico. Da solo non mi azzardavo a raggiungere grosse profondità ma, quando qualche amico, forse inviato da mia moglie, mi raggiungeva con la barca, sentivo di poter rischiare di più. Ora questo tipo di ostriche non esistono più. Sono completamente scomparse. Qualche cimelio è ancora conservato in un ripostiglio a Procida. Oggi, purtroppo, non è più quel tempo e quell'età: i tuffi in mare, in specie, non li faccio più.
 

Tag: storia