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09 aprile 2025, Aggiornato alle 16,04
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Politiche marittime

Porto e città, un dialogo difficile

"Economia del mare" è una bella parola, ma non contribuisce all'isolamento dei porti? Perché i programmi elettorali non citano mai gli scali marittimi? La verità è che i porti devono prima imparare a comunicare, e la politica ad ascoltarli di Paolo Bosso  


di Paolo Bosso 
 
In Italia accade un fenomeno particolare. L'isolamento a cui tende per sua natura il mondo portuale è sentito spesso come un motivo di orgoglio. La comunità marittima italiana ha coniato un termine per indicare il proprio business: economia del mare. Un concetto che se da un lato indica la storica identità del mondo marittimo del belpaese, dall'altro contribuisce al suo isolamento. C'è un fatto in Italia: i politici e la comunità marittima non si parlano. «Ti risulta che i porti siano mai stati inseriti tra i punti di un programma elettorale? Eppure in Italia ne abbiamo 144 sparsi in ottomila chilometri di coste» commenta con amarezza in uno scambio via email Daniele Testi, responsabile marketing del gruppo Contship Italia. Ma anche i porti italiani hanno le loro colpe. E' pur vero, infatti, che, come il codice di Buone Pratiche Espo insegna, i porti devono parlare una lingua comprensibile. 
C'è poi un altro fattore che influenza la chiusura del porto e il disinteresse della politica: la geografia del territorio. L'Italia è un paese fatto di costa. Tanta costa. Ha una conformazione tutta particolare, croce della logistica e delizia del turismo. Le città di mare sono quasi tutte a ridosso dei porti e una catena montuosa, gli Appennini, taglia da nord a sud le due sponde della penisola. In sintesi, una combinazione micidiale di geografia, orgoglio della comunità marittima e disinteresse storico del governo hanno così impedito una vera delocalizzazione delle attività portuali e con essa non è mai sorta una vera necessità di waterfront che includessero port center, centri culturali nel porto su cui dietro c'è un'intensa attività di promozione dell'Association Internazionale Ville & Ports. Contship Italia, uno dei principali terminalisti del paese, è uno degli esempi di maggior successo in Italia nel dialogo città-porto. Nel 2006 ha avviato il progetto Porto Lab, un'idea molto vicina allo spirito nordeuropeo dei portcenter, che mette insieme scuola, porto e istituzioni cittadine. Oggi vi partecipano quattro autorità portuali. «Siamo partiti da tre semplici domande», mi racconta Testi, «i cittadini delle città dove lavoriamo sono mai entrati in un terminal? Ci siamo mai sforzati noi operatori di parlare una lingua comprensibile? Il container è un oggetto trasparente?». Un lavoro pedagogico in linea con lo spirito di integrazione sociale dei porti, che si sforza di «mostrare – mi spiega Testi – gli effetti sulla vita quotidiana delle attività logistiche attraverso i prodotti che viaggiano nei container, nelle professionalità di chi lavora in questo mondo e nello scambio culturale che l'internazionalità del settore garantisce». Oggi Porto Lab è un team composto da trenta esperti e ogni anno porta più di tremila bambini a vedere i centri intermodali di Contship Italia. Altri esempi di iniziative simili non mancano. "Porto aperto" a Livorno, "Il porto di Napoli incontra le scuole" e numerose Stazioni Marittime sparse per la penisola. Ciò che manca ancora è l'istituzionalizzazione di queste iniziative, la loro integrazione con la città, l'ingresso di comuni, associazioni o musei che possano fare la loro parte. Attualmente invece si fa una tremenda fatica per realizzare anche una semplice visita guidata a un terminal container, figurarsi una pista ciclabile o un port center. L'unico esempio di port center italiano è a Genova, nato più di un anno fa, alle cui spalle c'è un solido meccanismo di finanziamento di cui gode il "Galata", il museo del mare nel cuore del porto antico: mille euro all'anno da parte di ciascuno dei circa 80 membri e 250mila euro dalla regione Liguria. 
Daniele Testi mi racconta l'entusiasmo che accompagnò l'incontro tra il gruppo di Porto Lab e i futuri fondatori del port center ligure. «Hilda Ghiara (ricercatrice dell'Università degli Studi di Genova ndr) e i rappresentanti della Regione Liguria si sentirono subito affrancati e stimolati verso la realizzazione di quel lavoro nonostante a Genova nessun operatore avesse dato loro supporto effettivo. Ed oggi secondo noi hanno fatto un lavoro incredibile, spesso isolati dal contesto genovese». 
Perché tanta chiusura? «Se confrontiamo le Authority italiane con quelle europee scopriamo che si trattano di enti tutto sommato giovani che devono ancora assumere una forma definita e che hanno dovuto affrontare in primis la loro privatizzazione» mi spiega Francesca Morucci, responsabile relazioni esterne del porto di Livorno che a fine giugno presenterà il progetto di port center dell'authority toscana in occasione del convegno di Nantes-Saint Nazaire Le Nouveau temps du port. L'organismo delle autorità portuali italiane nasce sulla base della legge 84 del 28 gennaio 1994 che istituisce un ente pubblico economico sottoposto al rapporto di impiego di diritto privato. Sarà pur vero che le authority italiane sono più giovani del resto d'Europa, ma ancora più vero pesa il mix di "orgoglio marittimo", disinteresse politico e conformazione geografica. Secondo Morucci per colmare questo gap c'è bisogno di un'attività di comunicazione prima di tutto rivolta all'interno del porto, una specie di collante che muova con lo stesso spirito tutti gli attori del porto. «Quello che molti miei colleghi dovrebbero capire – spiega Morucci - è che la promozione di un porto non è soltanto un'attività che si rivolge ad altri scali ma deve parlare anche agli autotrasportatori, ai terminalisti, agli agenti marittimi, a tutti i componenti dell'attività portuale. L'idea di una comunicazione efficace deve appartenere a tutti». La verità, quindi, è che i porti italiani devono imparare a comunicare, e il mondo della politica ad ascoltarli.