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22 novembre 2024, Aggiornato alle 15,09
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Cultura

Il mare in tre domande a... Pino Veneroso

Un navigatore ci insegna il linguaggio universale della grande madre blu

Pino Veneroso

di Marco Molino

Ti siedi a studiare la mappa con i continenti che si fronteggiano, e già questo è un invito all'avventura. Europa e Africa da un lato e America dall'altro, separate da miglia e miglia di oceano, l'infido Atlantico che lacera i sogni degli sprovveduti. Oltre le Colonne d'Ercole, Colombo trovò un mondo che non si aspettava. E dopo di lui il richiamo irresistibile delle coste remote ha ossessionato altri esploratori in cerca di ricchezza – certamente – ma soprattutto di conoscenza. Se riesci a raggiungere la porzione nascosta del globo, puoi cogliere pensieri e persone che a casa tua difficilmente noteresti. La lontananza ti apre la mente anche per comprendere meglio le tue origini.

Pino Veneroso, il mare grosso talvolta fa paura e ad affrontare i flutti senza la terra in vista ci vuole coraggio ed esperienza. La ricompensa è però straordinaria. Nella barca conosci ogni giorno te stesso e in ciascun approdo catturi sempre nuovi frammenti di umanità. Dunque è vero che seguendo la rotta puoi circumnavigare la vita fino a riscoprire magari le tue radici? 
«Tante volte, ritornato dal mio viaggio in Oceano, in solitario, mi è stato chiesto del mare, soprattutto delle onde oceaniche in corso di una burrasca e come avevo passato il tempo in solitudine. Io, che sono stato uno degli ultimi nati in casa, a pochi passi della battigia, con l'aiuto della mammana, le mie prime boccate d'aria respirata furono di aria marina sature di iodio; i primi rumori, che poi diventarono familiari furono quelli dell'armoniosa risacca che sempre si infrange spumeggiante sulla battigia e quando mia madre incominciò a portarmi fuori, sulla spiaggia incominciai ad amare quel bel azzurro a volte turchese, i bei colori cangianti del mare. 
Inutile dire che discendo da una famiglia di uomini di mare, pescatori e naviganti da diverse generazioni e io stesso ho vissuto tutta la mia vita, lavorando e divertendomi sul mare, con il mare, intensamente. Il mare, non la terra è il mio elemento naturale. Nel passare degli anni ho cercato sempre di conoscerlo meglio e ho imparato a rispettarlo: non ho mai avuto paura di questo mondo fantastico ma, quando mi chiedono di parlare del mare, proprio perché lo conosco così bene trovo difficoltà a parlarne». 

Spiriti liberi i naviganti, ma quando sono in mare hanno sempre voglia di tornare tra le vecchie pietre del paese natale a crogiolarsi nell'affetto del proprio pantheon familiare. Valori che apprezzano ancor di più stando lontano. Forse per questo gli uomini di mare sono così attenti alla salvaguardia delle tradizioni. Come riescono a conciliare l'inesauribile desiderio di libertà con la lacerante nostalgia del proprio nido?
«Bisogna, oggi, fare distinzione tra il navigante-lavoratore sulle imbarcazioni a motore e il navigante-diportista sulle imbarcazioni a vela se vogliamo trovare ancora quell'uomo di mare dallo spirito sano e semplice, dal cuore sensibile combattuto tra le partenze e i ritorni ma che rimane sempre romantico. Questi uomini di mare, abituati ad orizzonti che sembrano proiettati all'infinito, non preoccupanti di possibili tempeste, affascinati di notte da tante stelle sulle loro teste vivono con la mente che porta la loro anima a vagare per galassie. Ma anche a tornare idealmente a casa. Cito dal mio libro Con lo Jutta sulla scia del Leone di Caprera: "2 agosto 2003. Una barca a vela con il suo capitano a bordo. Non trovano pace. palpitanti di desiderio di mollare gli ormeggi, partire, aspettano. Pomeriggio inoltrato. Il sole è ancora alto, li verso Punta Licosa. Questa mattina di buon ora ho provveduto a spostare di ormeggio lo Jutta, l'ho affiancato sulla testata del molo del mandracchio nel porto di Marina di Pisciotta. Si piange a bordo. Molti a terra piangono, altri pregano per me. Comunque credono nel marinaio che è in me, nelle mie capacità e sono convinti che porterò a termine l'impresa". Il navigante, soffre. Desidera fortemente mollare gli ormeggi ma fa di tutto per far si che questo avvenga il più tardi possibile: dentro di lui vive un grande conflitto. 
Una volta rimasi prigioniero per 12 giorni nelle calme equatoriali, la mia mente vagava e potei assaporare quel senso di libertà assoluta, indescrivibile. Spesso tornavo ad esaminare punto per punto il mio passato, le mie origini, gli amici, il mio paese. La libertà è anche questo eterno ritorno».

Per chi abitualmente vive e lavora a terra, il gergo marinaresco appare talvolta  incomprensibile. Invece definisce oggetti e azioni semplici, condivisi per millenni anche dalle popolazioni costiere più distanti e differenti. Gli usi dei naviganti possono allora diventare una sorta di linguaggio universale per confrontarsi con il resto del mondo?
«Quello spirito libero dei naviganti a vela che ti cattura soprattutto quando stai al timone con le vele ben bordate e la barca che scorre silenziosa, soltanto lo sciabordio del mare a murata. Lo sguardo perso all'orizzonte, di tanto in tanto girandosi a guardare a poppa, soprattutto di notte, si rimane affascinati dalla lunga scia luminosa di plancton che si perde in lontananza con il cielo stellato. A volte, quando ero in Oceano, di notte, rimanevo come imbambolato nello scorgere a murata l'accendersi così all'improvviso dei globi fosforescenti grandi come un pallone di calcio per poi perdere lentamente di luminosità e scomparire del tutto, anche altri naviganti hanno scritto di questo fenomeno senza sapersi dare una spiegazione, come me: non ero mai solo. 
E così, scendevo verso il sud passando da un arcipelago a un altro: in Mediterraneo le Baleari; in Oceano Atlantico le Canarie, le isole di Capo Verde e a poche miglia sotto l'Equatore l'isola di Fernando di Noronha. Tutte isole distanti una dall'altra ma ovunque lungo le loro coste si sentiva parlare lingue e idiomi diversi ma poi curiosando si scopriva che le usanze nel costruire le imbarcazioni, nell'armarle a vela, le attrezzature da pesca più o meno erano uguali a quelle nostre del Mediterraneo. Ma un legame invisibile tra la mia storia e il mondo c'è sempre stata.
Da sempre andavo a sedermi su quella bella spiaggia di agliaredde, (ciotoli ben levigati dal mare), lo sguardo rivolto a quell'orizzonte azzurro, a volte rosso, a volte grigio, grigio chiaro o grigio scuro, a secondo del tipo di nuvole che vi stazionavano sopra in quei pochi attimi in cui il sole volgeva al tramonto. Quell'orizzonte oltre il quale svanì mio padre, come nel nulla, quando io ero in tenera età. Sempre, nella mia adolescenza, ho morbosamente desiderato scoprire cosa c'era oltre quell'orizzonte. In quegli anni e negli anni a venire, in me c'era una grande sete di conoscere la vita oltre la nostra piccola comunità di agricoltori-pescatori minaicuoti (pescatori di alici). La navigazione mi ha consentito di scoprire e capire quel mondo ignoto».

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Pino Veneroso è uomo di mare e navigatore. Nasce nel 1943 e vive la maggior parte della sua vita a Marina di Pisciotta, nel Cilento. Da qui è partito il 2 agosto del 2003 per una traversata che lo ha condotto fino a Montevideo, in Uruguay, sulla scia de Il Leone di Caprera, barca italiana che compì la stessa impresa nel 1880. Dice di se: "Sono nato in un paese di mare, discendente da generazioni di pescatori e marinai; ho giocato col mare e poi ho lavorato sul mare. In tenera età ero mozzo su imbarcazioni a remi con armo a vela latina di costruzione sorrentina, barche usate nella pesca delle alici con la menaica. Ho navigato poi con la Marina Mercantile e con la Marina Militare (Finanza di Mare).Con un mio amico sognavamo da ragazzi di girare il mondo in barca a vela, ripercorrendo l'Atlantico sulla rotta seguita oltre un secolo fa dal Leone di Caprera". Impresa realizzata e portata a termine quindici anni fa